giovedì 18 febbraio 2010

Francia, Polonia, Italia

Avere il water che non funziona è una seccatura, alla quale si può rimediare col vecchio metodo del secchio. Avere il water elettrico (qui tutto è elettrico, anche i biscotti) che non funziona, è una enorme seccatura, alla quale non v'è rimedio alcuno. Ce ne sarebbe uno, se solo la mia chiave del bagnetto sul pianerottolo funzionasse, ma così non è.
Però, questo inconveniente m'ha permesso di conoscere i proprietari di casa mia. Adorabili. Sulla settantina, immaginateveli, lui è paffuto, col baffo bianco, francese; anche lei grassottella, sorridente, parla con un fortissimo accento polacco, più che accento direi che per ogni parola francese ce ne sono un paio sconosciute, e si scusa di non togliersi il cappello ma è mal pettinata. Si presentano entrambi a casa, stamattina, e d'acchito mi chiedo come contino di riparare il water. E già mi sbaglio, perché lui sa benissimo dove mettere le mani. Intanto, lei apre la porta del bagno sul pianerottolo e con mio grande stupore, dietro non c'è un bagno ma solo mensole. Ma dov'è il water, chiedo, e lei ride, mi dice ma non è mica qui! Mi mostra un'altra porta. Ah. Ma allora vuoi vedere che la chiave che ho... ovviamente sì, funziona, bastava sapere qual era la porta, e avrei evitato di diventare cliente fisso dei bar del quartiere...
Intanto lui ripara lei pulisce, e io mi sento inutile. E mentre uno fa una cosa, io chiacchiero con l'altro, lei mi racconta che il marito è malato di cuore ma che tutto va meglio da che prende il potassio, e lui mi parla dei suoi figli, del fatto che ora è nonno. E poi mi dice che parlo bene in francese, non come sua moglie che è qui da quarant'anni e non l'ha ancora imparato, e la prende in giro, mi racconta di quando sono stati a Roma e lei non si schiodava più da San Pietro perché voleva vedere il papa, che ci vuol fare è polacca. Lei risponde dicendo che è una donna di campagna, mica una parigina come lui; e mi racconta di quando vivevano tutti e due nell'appartamento e di fronte - erano gli anni settanta - la stamperia era ancora aperta, un rumore continuo di macchinari, giorno e notte, ed era pieno di bar frequentati dagli operai del giornale, e si trovava lavoro con facilità, anche io che non parlavo francese guardavo gli annunci e ne avevo già trovato uno, non come ora. Finita la riparazione, finita la visita, ormai capisco tutto quello che lei mi dice.

lunedì 8 febbraio 2010

La caccia all'università

Una storia di quasi tre anni fa, che mi è saltata alla mente ieri notte, senza motivo, in uno di quei momenti in cui speri che il continuo rigirarti tra le coperte possa ipnotizzarti e farti così cadere tra le braccia di Morfeo.
Dicevo. Era giugno 2007. Cercavo di iscrivermi in un'università francese. Ho già la mia prima scelta, ma per scrupolo mando il curriculum pure ad una seconda università, perché non si sa mai. Due giorni dopo, la segretaria mi chiama: non perdono tempo, questi. Il dialogo suona pressapoco così: "Abbiamo letto il suo curriculum, ci interessa, vorremmo conoscerla e che lei potesse discutere con il responsabile della formazione, venerdi le va bene? a che ora preferisce?" "Possiamo fare verso le dieci?" "Le dieci?! No, troppo tardi, verso le nove?" "possiamo fare nove e mezza" "non credo" "allora alle nove" (e perché diavolo mi chiedi a che ora preferisco, allora?)
Venerdi, alle nove meno dieci scendo dal treno. Treno: perché la seconda scelta sta in tanta malora, mica si diventa seconda scelta senza un motivo. Trovo l'ingresso dell'università, e penso: no, c'è un errore. In effetti mi sembra di essere in una scuola media di periferia, o al massimo in un oratorio costruito negli anni settanta. Uno spiazzo di cemento, dove qualcuno gioca a calcio, e due edifici a due piani di cemento. Punto. Alla faccia del design. Cerco senza successo la segretria, non c'è nessun cartello. Un'anima pia mi ascolta e mi spiega dove andare: in effetti, dietro il primo edificio c'è una sorta di giardino, un po' in salita, che termina con una casupola in mattoni, stile campagna: la segretria. Sono molto perplesso. Entro, mi dicono di aspettare un attimo. Sono nell'ingresso della casupola, sembra il circolo delle bocce di abbiategrasso. Un tavolo rotondo, delle coppe di misera fattura esposte su scaffali cadenti, una seggiola nel camino (sì, c'è un camino). Al dio degli scherzi piace fare marachelle, ma sa anche darti anche una mano, e io quel giorno lì ho senza alcuna ragione in tasca la macchina fotografica, e allora ecco a voi l'ingresso della segreteria dell'università.
Seguì il colloquio col resposabile, che con molta obiettività mi suggerì di tralasciare la mia prima scelta, e di stare lì da loro, perché lui insegnava in entrambe le università e poteva assicurarmi che questa era ben migliore di quella. Manco fossi uno di quegli sportivi che si portano dietro uno sponsor che paga. Mah.
A volte mi chiedo come sarebbe la mia vita se avessi dovuto farmi tutti i giorni un'ora di treno per andare al circolo delle bocce...

martedì 2 febbraio 2010

L'arte di commentare

Se questo fosse un mondo giusto, ecco i commenti che mi aspetterei dai destinatari della mia missiva:

Giacomo: quando è che la smetti con queste cazzate e ti trovi un donna? (sic!)

Sara: Riviiiii ma è bello feeeeeees!

Claudia: certo! (chiaro, pratico, sintetico)

Giona: codio...

Alberto: Che perla! Andiamo all'Escale?

Luca: minchia povero rivi! appena ho finito di smontare il motore della vespa, lo leggo.

Cavazza: Rivetti non pensavo che lei avesse anche questo talento nascosto! (e qui io, sull'ennesimo doppio senso della Fra, arrossisco)

Davide: NonPerderòUnAttimoKeSonoGiàLiLeggoKeStoria (perché lui ha fatto comunicazione, e sa)

lunedì 1 febbraio 2010

Istanbul

Più di una mezzaluna, o di un mosaico, più di uno scorcio di moschea, Istanbul è per me un insieme di parole difficili e affascinanti, che mi sforzo di tenere a mente. Tamam vuol dire ok, e questo lo imparo subito; non che mi serva molto altro, in realtà, ma il cercare di memorizzare, di ripetere, è il modo più naturale che trovo per immedesimarmi nella città. E allora, Kabatas è il capolinea del tram da prendere per arrivare a casa, Taksim è la grande piazza fulcro della vita notturna del quartiere più moderno, e Besiktas il quartiere dove vive Suzie e la parola magica da pronunciare se mi perdo; ma questa è facile - sorrido tra me - è come la squadra di calcio.
Il pide è uno sfilatino caldo ripieno di patate o formaggio, che non mi par vero possa costare così poco, mentre un baklava è una pastasfoglia dolcissima ripiena di miele e pistacchio, che si incolla alle mani, si scioglie in bocca e ti lascia estremamente felice. Davanti a Santa Sofia, fanno alcuni tra i migliori kofte della città, polpette di carne speziata. Alcune parole mi sfuggono, me le faccio ripetere, mi sforzo. A volte confondo una via del centro con un pane al sesamo. Del resto, sono i luoghi e il cibo che mi colpiscono di più. E se Uskudar è difficile tanto da ricordare quanto da pronunciare, e fa inceppare la mia lingua, Uskudar è l'approdo sull'altra riva del Bosforo, è la meta del piccolo battello che tra un sobbalzo e una nuvola di gasolio, ci traghetta sopra questa strisica di mare grigio, ondulato, fino a un lembo di molo che non è più Europa, perché Uskudar è il capolinea dell'Asia. O l'inzio dell'oriente.
Istanbul, ancor più che Santa Sofia, Topkapi o la Moschea blu, Istanbul sono i gatti ad ogni angolo di strada, sono i cani randagi padroni di un loro terrirorio. Istanbul sono negozi aperti ad ogni ora, e Suzie che mi racconta di aver fatto la spesa tornando dalla discoteca. Istanbul è una valanga di gente sempre riversata nelle strade. Istanbul è un autobus ogni minuto, tanto che io stento a crederci, ed è anche un taxi, un esercito di taxi gialli, e pure un taxi collettivo, su cui si sale in tanti, troppi, che senza sapere come mi porta esattamente dove voglio, ad un prezzo ridicolo, seduti in coppia su un solo sedile, davanti. O ancora, i pescatori che giorno e notte si sporgono dal ponte di Galata. Istanbul sono dei locali agli ultimi piani degli edifici del centro, dove ti affacci e vedi la città, mentre il dj trasmette una versione spagnola di should I stay or should I go, e tu ti chiedi perché. Suzie cerca un cappotto col collo di pelo mentre io compro un etto di zafferano per poche monete; ovviamente, non sa di niente.
Nell'euforia della città, il mio non avere impegni mi fa camminare tranquillo sullo riva del Bosforo. Sto tornando a casa da solo, ma nella folla degli autobus non so quale scegliere, e preferisco andare a piedi: non è più di un quarto d'ora. Di fianco a me, c'è il palazzo degli ultimi sultani dell'impero, adagiato sulla riva, bianchissimo. Ma di questo palazzo, il nome non mi è mai rimasto in testa per tutta la vacanza.