lunedì 24 maggio 2010

Sud Ovest 2009, appunti (1)

1° giorno. Sur les cieux de Marseille

Alba azzurrina e perfino una sensazione di fresco, in una Brescia d'Agosto spoglia di gente. Sotto casa di Sara il contachilometri è azzerato e si parte: sono le sei e venti.
Nizza, lungomare, il calore è soffocante. Ma una città di mare sa quel che serve, e le strade strette del centro storico impediscono al sole di battere e l'aria si fa più fresca. Ogni bar e ristorante propone la Socca, una sorta di focaccia che molto assomiglia alla cecina.
Arrivando dalle Calanques, da Cassis, hai l'impressione di volare e di planare all'improvviso sopra Marsiglia. Siamo su una strada tutta curve, tra montagne aride, brulle, con il mare da qualche parte a sinistra, troppo in basso perché si possa vederlo. E poi appare. La strada ore è in discesa, e dietro una curva, più in basso, vediamo la mole della città. Marsiglia da qui pare incastonata tra le montagne, un segreto riservato a chi ha trovato la giusta via tra le rocce.
La bouillabaisse, tanto ipotizzata, tanto sognata, la mia bouillabaisse è una trappola in un ristorante da turista nel porto vecchio. E' una zuppa di pesce preceduta dalla stessa zuppa senza pesce. Sara è allibita.

2° giorno. "Il y a vachement de taureaux"

Frase carpita tra le vie di Marsiglia: l'associazione tauro-bovina non fa una piega.
Marsiglia non è una città per turisti: banale: lo scriveva J.C. Izzo e lo scrive una qualsiasi guida; lo dice ogni turista, anche. Forse. Marsiglia è un contrasto: prima ancora che tra vecchio e nuovo, è un contrasto tra qualcosa di salvato e qualcosa all'abbandono, è un monumento accanto ad un cantiere, una cattedrale in riva al mare su di un molo di cemento. C'è il porto vecchio, e la città seduta attorno, a cosce spalancate, ti guarda apertamente.
Marsiglia e Montpellier, il diavolo e l'acquasanta. Perché Montpellier l'universitaria è viva anche d'agosto, è elegante, ben tenuta, ben pulita, perfetta. Il cuore della città dovrebbe essere la piazza ovale della Comédie, che di ovale non ha niente.
Potrà sembrare un po' eretico, ma Montpellier mi ricorda Siviglia; non dico nell'architettura, ma nella pianta, un centro storico rotondo fatto di qualche ampio viale, da cui si snodano vicoli dal sapore medievale; un tram fende in modo quasi irreale la zona pedonale. E i vicoli, vero cuore della città, abbondando di bar e ristoranti, che d'estate riversano all'esterno i tavolini e si riempiono di gente.


Tra Marsiglia e Montpellier, la Camargue. Potrei usare l'aggettivo selvaggio e paludoso per descrivere il delta del Rodano. In realtà non mi è sembrata più selvaggia e paludosa di altre zone. Per attraversare il Rodano non c'è nessun ponte, ma un traghetto su cui imbarcare l'auto.


3° giorno: 1000 kilomètres.

Lasciata Montpellier alle spalle, la meta è Béziers. Quelli come noi, a cui il destino ha affidato una pessima guida Mondadori, devono basare il proprio itinerario su qualche fotografie e molta inventiva, più che su idee concrete di viaggio. E' un bene e un male allo stesso tempo.

Di Béziers, due ricordi da conservare: la cattedrale con la vista dall'alto del campanile, e l'impiegata dell'ufficio del turismo, dagli occhi azzurro cielo. Nel pomeriggio, Perpignan e il campeggio di Canet-en-Roussillon, dove ora sto scrivendo. Ho appena scoperto che in un campeggio possono benissimo esserci una piscina e una discoteca (sì, e pure accanto alla nostra tenda, motivo per cui mi trovo sveglio a scrivere). Però non c'è la carta igienica, quella bisogna portarsela da casa, per mantenere almeno un po' l'idea di selvaggio… Altro che Camargue.

giovedì 20 maggio 2010

Le Alpi del Sud

E' in una sorta di apnea un po' addormentata che esco di casa, prendo la rer, arrivo a Orly e salgo sull'aereo. Compilo anche un questionario senza capire bene su cosa. Realizzo meglio dove mi trovo solo quando vedo il mare della costa azzurra fare capolino fuori dal finestrino: stiamo atterrando a Nizza. E ancora senza sapere bene come, mi ritrovo sul treno regionale che mi deve portare ad Annot, tra le Alpi provenzali. Il treno è costituito solo da un paio di corti vagoni, con locomotiva diesel integrata. Mi siedo, rifiato. Poco prima della partenza, compare il controllore, che dal fondo del vagone estrae una sorta di cartelletta e guarda i passeggeri: non vorrà mica fare l'appello? No, il treno parte senza verificare che non ci siano assenti, e forse il controllore conta le fermate, o i tempi di percorrenza, o chissà, il numero di marmotte avvistate lungo il percorso.
Il convoglio risale il fiume Var, si inserisce in una valle che si stringe sempre più tra le montagne. Dopo pochi minuti, il mare è già un ricordo lontano.
Seduti accanto a me, due tedeschi corpulenti filmano entusiasti il viaggio con una telecamera da professionisti: che stiano facendo un reportage? Sarà. Io vorrei appisolarmi, come sempre su un treno, ma gli scossoni e gli strattoni del motore me lo impediscono. Poco lontano, una signora anziana non ha i miei stessi problemi, e si addormenta accasciata sul bracciolo, mezza piegata verso il corridoio. Mi chiedo se sia davvero ancora dei nostri.
Il fiume è stretto e ripido, e una volta passato St Martin du Var, le case spariscono quasi del tutto, rimangono solo la strada e la ferrovia che risalgono la vallata tra gli alberi. Ogni tanto compaiono dei ponti con assi di legno, degni di Indiana Jones, che collegano le due sponde.
Sosta. Il treno si ferma a Non-so-bene-che-du-Var. Il capotreno, con occhiali a specchio e una polo delle ferrovie regionali, scende a fumare una sigaretta; lo segue un ragazzino di quattordici anni, più o meno, zaino in spalle, ha l'aria di qualcuno che prende questo treno tutti i giorni per andare a scuola a Nizza. Il capotreno gli accende una sigaretta. Siamo in mezzo al nulla, è una scena fuori dal tempo. Scende anche il controllore a fumare, con cravatta, iphone e giubbetto catarinfrangente: lui è tutt'altro che fuori dal tempo. I reporter tedeschi riprendono la scena, dai loro sorrisi deduco che non potevano chiedere di meglio. Dopo qualche minuto, arriva anche il treno che viaggia nell'altra direzione, frena, si ferma. Scende il controllore, anche lui con una cartelletta: i due colleghi si stringono la mano, ognuno controlla i fogli dell'altro, mettono una firma. Dopo aver verificato chi di loro abbia avvistato più marmotte, si scambiano un saluto e i due treni ripartono nelle rispettive direzioni.
La vallata si fa sempre più stretta e rocciosa, qualche albero cresce a spiovente sul fiume. Penso che Bob Dylan sia quello che ci vuole in questo momento. Poi la valle si riapre, passiamo ad Entrevaux dove una sorta di muraglia di pietra risale serpeggiando un lato della montagna; molti turisti scendono qui per visitare il posto. Io proseguo ancora per qualche kilometro, fino ad Annot, dove mi aspettano in macchina. Per arrivare fino a Peyresq, meta finale, bisogna salire ancora diverse centinaia di metri.

mercoledì 5 maggio 2010

una mezza Leffe

Sono quasi le cinque quando io e Eric decidiamo che è ok, abbiamo capito tutto e ci sentiamo pronti per gestire i TP di vibrazioni. Tralascio su cosa siano i TP di vibrazioni, limitandomi a dire che Eric è ben contento di farli, e che io, col senso pratico di un bradipo monco, vorrei piuttosto rotolarmi nel filo spinato. Ma questo non conta, abbiamo finito e Eric si offre di riaccompagnarmi in macchina a Parigi. Accetto volentieri pensando ingenuamente di guadagnare tempo; il solito traffico memorabile fa sì che ci mettiamo un'ora per arrivare a casa sua, e a me tocca ancore un tragitto un metrò. Decido allora in un trambusto di programmazione di non rientrare a casa - non c'è tempo - ma di aspettare direttamente fuori per l'appuntamento delle sette.
E allora faccio la cosa più parigina del mondo, attività per me rara ma che mi riempie ogni volta di soddisfazione, come un linguaggio segreto tra me e la città: mi siedo in bar, ordino un mezza Leffe e leggo, scrivo, metto a posto appunti della giornata. Banale, no? Certamente, ma anche impercettibilmente tranquillo. Il tempo vola, la stanchezza della giornata per un po' si scosta anche lei, si arrende alla birra che mi assopisce sì, ma gentilmente.