domenica 27 giugno 2010

Sud Ovest 2009, appunti (2)

4° giorno: "Maman, mais alors il faut être marrant ou belge?"

Il contesto della frase non è noto, ma va già benissimo così.
Siamo nel campeggio di Banyuls-sur-mer, vicinissimi al confine con la Spagna: è la côte vermeille, là dove i Pirenei toccano il mediterraneo. A ritroso: aperitivo e cena in tenda a base di tortillas, couscous, birra, filadelfia; grossi nuvoloni continuano a passare sopra di noi. Acquazzone. Escursione tra le falaises della costa, poco oltre la città, persi in sentieri a picco sulla scogliera. Arrivo in fondo al sentiero e dentro di me mi dico: ora getto il telefono in mare e urlo trovatemi se potete. Mi sento lontano da tutto. Sulla strada del ritorno, un ingorgo memorabile richiede quaranta minuti per scendere tre o quattro tornanti.
Questa mattina, Collioure. Villaggio fortificato in riva al mare. Mura fatte erigere da Vauban: ma non è lo stesso di Saint Malo? Sarà per questo che mi sembra di essere in Bretagna piuttosto che al confine con la Spagna. Il villaggio è una graziosa e coloratissima scatola per turisti.





5° giorno: Briques


Lasciamo la costa mediterranea per tagliare verso l'interno, e poi l'Atlantico. La tappa di oggi è Tolosa. Tolosa è una città di mattoni rossi. Tutti gli edifici sono fatti di mattoni, tutti gli edifici non sono che un unico edificio di epoca e mattoni diversi. La Garonna taglia la città a metà. Anni fa, a Padova, Katia mi disse che Tolosa era una città piena di cani: beh, è vero. Non si può non notarlo. Dormiamo in un hotel ad una stella, la finestra della nostra camera si affaccia sul corridoio di accesso, le lenzuola sono di dubbia pulizia e l'odore che ti attanaglia le narici nel momento in cui varchi la porta (fumo? bruciato? che altro?) ci dà solo voglia di fuggire. Ma fa parte del gioco.

6° giorno: l'océan

Si chiama Mathias, ha ventiquattro anni, barba folta, un cappello da tirolese e da tre anni (e un giorno) gira il mondo. E' un forgeron, un fabbro, ci spiega; ora deve raggiungere qualcuno in Galizia e ha due giorni per farlo, per questo fa l'autostop, altrimenti preferisce spostarsi a piedi. Sale all'ingresso dell'autostrada, a Tarbes, e scende a Biarritz.
Abbiamo lambito i piedi dei Pirenei fino all'oceano. I Paesi Baschi.
Le onde di Biarritz sono come le immaginavo, alte, lunghe. L'oceano è di un azzurro inaspettato, che sfuma repentinamente in blu a poche centinaia di metri della costa. Una volta sulla spiaggia, ci si può bagnare solo in uno stretto lembo di mare delimitato dalle bandiere. Altrove, è regno dei surfisti. Ma va benissimo così. Quando mi immergo tra le onde, mi sento sballottato ovunque, in balìa dell'acqua.

lunedì 24 maggio 2010

Sud Ovest 2009, appunti (1)

1° giorno. Sur les cieux de Marseille

Alba azzurrina e perfino una sensazione di fresco, in una Brescia d'Agosto spoglia di gente. Sotto casa di Sara il contachilometri è azzerato e si parte: sono le sei e venti.
Nizza, lungomare, il calore è soffocante. Ma una città di mare sa quel che serve, e le strade strette del centro storico impediscono al sole di battere e l'aria si fa più fresca. Ogni bar e ristorante propone la Socca, una sorta di focaccia che molto assomiglia alla cecina.
Arrivando dalle Calanques, da Cassis, hai l'impressione di volare e di planare all'improvviso sopra Marsiglia. Siamo su una strada tutta curve, tra montagne aride, brulle, con il mare da qualche parte a sinistra, troppo in basso perché si possa vederlo. E poi appare. La strada ore è in discesa, e dietro una curva, più in basso, vediamo la mole della città. Marsiglia da qui pare incastonata tra le montagne, un segreto riservato a chi ha trovato la giusta via tra le rocce.
La bouillabaisse, tanto ipotizzata, tanto sognata, la mia bouillabaisse è una trappola in un ristorante da turista nel porto vecchio. E' una zuppa di pesce preceduta dalla stessa zuppa senza pesce. Sara è allibita.

2° giorno. "Il y a vachement de taureaux"

Frase carpita tra le vie di Marsiglia: l'associazione tauro-bovina non fa una piega.
Marsiglia non è una città per turisti: banale: lo scriveva J.C. Izzo e lo scrive una qualsiasi guida; lo dice ogni turista, anche. Forse. Marsiglia è un contrasto: prima ancora che tra vecchio e nuovo, è un contrasto tra qualcosa di salvato e qualcosa all'abbandono, è un monumento accanto ad un cantiere, una cattedrale in riva al mare su di un molo di cemento. C'è il porto vecchio, e la città seduta attorno, a cosce spalancate, ti guarda apertamente.
Marsiglia e Montpellier, il diavolo e l'acquasanta. Perché Montpellier l'universitaria è viva anche d'agosto, è elegante, ben tenuta, ben pulita, perfetta. Il cuore della città dovrebbe essere la piazza ovale della Comédie, che di ovale non ha niente.
Potrà sembrare un po' eretico, ma Montpellier mi ricorda Siviglia; non dico nell'architettura, ma nella pianta, un centro storico rotondo fatto di qualche ampio viale, da cui si snodano vicoli dal sapore medievale; un tram fende in modo quasi irreale la zona pedonale. E i vicoli, vero cuore della città, abbondando di bar e ristoranti, che d'estate riversano all'esterno i tavolini e si riempiono di gente.


Tra Marsiglia e Montpellier, la Camargue. Potrei usare l'aggettivo selvaggio e paludoso per descrivere il delta del Rodano. In realtà non mi è sembrata più selvaggia e paludosa di altre zone. Per attraversare il Rodano non c'è nessun ponte, ma un traghetto su cui imbarcare l'auto.


3° giorno: 1000 kilomètres.

Lasciata Montpellier alle spalle, la meta è Béziers. Quelli come noi, a cui il destino ha affidato una pessima guida Mondadori, devono basare il proprio itinerario su qualche fotografie e molta inventiva, più che su idee concrete di viaggio. E' un bene e un male allo stesso tempo.

Di Béziers, due ricordi da conservare: la cattedrale con la vista dall'alto del campanile, e l'impiegata dell'ufficio del turismo, dagli occhi azzurro cielo. Nel pomeriggio, Perpignan e il campeggio di Canet-en-Roussillon, dove ora sto scrivendo. Ho appena scoperto che in un campeggio possono benissimo esserci una piscina e una discoteca (sì, e pure accanto alla nostra tenda, motivo per cui mi trovo sveglio a scrivere). Però non c'è la carta igienica, quella bisogna portarsela da casa, per mantenere almeno un po' l'idea di selvaggio… Altro che Camargue.

giovedì 20 maggio 2010

Le Alpi del Sud

E' in una sorta di apnea un po' addormentata che esco di casa, prendo la rer, arrivo a Orly e salgo sull'aereo. Compilo anche un questionario senza capire bene su cosa. Realizzo meglio dove mi trovo solo quando vedo il mare della costa azzurra fare capolino fuori dal finestrino: stiamo atterrando a Nizza. E ancora senza sapere bene come, mi ritrovo sul treno regionale che mi deve portare ad Annot, tra le Alpi provenzali. Il treno è costituito solo da un paio di corti vagoni, con locomotiva diesel integrata. Mi siedo, rifiato. Poco prima della partenza, compare il controllore, che dal fondo del vagone estrae una sorta di cartelletta e guarda i passeggeri: non vorrà mica fare l'appello? No, il treno parte senza verificare che non ci siano assenti, e forse il controllore conta le fermate, o i tempi di percorrenza, o chissà, il numero di marmotte avvistate lungo il percorso.
Il convoglio risale il fiume Var, si inserisce in una valle che si stringe sempre più tra le montagne. Dopo pochi minuti, il mare è già un ricordo lontano.
Seduti accanto a me, due tedeschi corpulenti filmano entusiasti il viaggio con una telecamera da professionisti: che stiano facendo un reportage? Sarà. Io vorrei appisolarmi, come sempre su un treno, ma gli scossoni e gli strattoni del motore me lo impediscono. Poco lontano, una signora anziana non ha i miei stessi problemi, e si addormenta accasciata sul bracciolo, mezza piegata verso il corridoio. Mi chiedo se sia davvero ancora dei nostri.
Il fiume è stretto e ripido, e una volta passato St Martin du Var, le case spariscono quasi del tutto, rimangono solo la strada e la ferrovia che risalgono la vallata tra gli alberi. Ogni tanto compaiono dei ponti con assi di legno, degni di Indiana Jones, che collegano le due sponde.
Sosta. Il treno si ferma a Non-so-bene-che-du-Var. Il capotreno, con occhiali a specchio e una polo delle ferrovie regionali, scende a fumare una sigaretta; lo segue un ragazzino di quattordici anni, più o meno, zaino in spalle, ha l'aria di qualcuno che prende questo treno tutti i giorni per andare a scuola a Nizza. Il capotreno gli accende una sigaretta. Siamo in mezzo al nulla, è una scena fuori dal tempo. Scende anche il controllore a fumare, con cravatta, iphone e giubbetto catarinfrangente: lui è tutt'altro che fuori dal tempo. I reporter tedeschi riprendono la scena, dai loro sorrisi deduco che non potevano chiedere di meglio. Dopo qualche minuto, arriva anche il treno che viaggia nell'altra direzione, frena, si ferma. Scende il controllore, anche lui con una cartelletta: i due colleghi si stringono la mano, ognuno controlla i fogli dell'altro, mettono una firma. Dopo aver verificato chi di loro abbia avvistato più marmotte, si scambiano un saluto e i due treni ripartono nelle rispettive direzioni.
La vallata si fa sempre più stretta e rocciosa, qualche albero cresce a spiovente sul fiume. Penso che Bob Dylan sia quello che ci vuole in questo momento. Poi la valle si riapre, passiamo ad Entrevaux dove una sorta di muraglia di pietra risale serpeggiando un lato della montagna; molti turisti scendono qui per visitare il posto. Io proseguo ancora per qualche kilometro, fino ad Annot, dove mi aspettano in macchina. Per arrivare fino a Peyresq, meta finale, bisogna salire ancora diverse centinaia di metri.

mercoledì 5 maggio 2010

una mezza Leffe

Sono quasi le cinque quando io e Eric decidiamo che è ok, abbiamo capito tutto e ci sentiamo pronti per gestire i TP di vibrazioni. Tralascio su cosa siano i TP di vibrazioni, limitandomi a dire che Eric è ben contento di farli, e che io, col senso pratico di un bradipo monco, vorrei piuttosto rotolarmi nel filo spinato. Ma questo non conta, abbiamo finito e Eric si offre di riaccompagnarmi in macchina a Parigi. Accetto volentieri pensando ingenuamente di guadagnare tempo; il solito traffico memorabile fa sì che ci mettiamo un'ora per arrivare a casa sua, e a me tocca ancore un tragitto un metrò. Decido allora in un trambusto di programmazione di non rientrare a casa - non c'è tempo - ma di aspettare direttamente fuori per l'appuntamento delle sette.
E allora faccio la cosa più parigina del mondo, attività per me rara ma che mi riempie ogni volta di soddisfazione, come un linguaggio segreto tra me e la città: mi siedo in bar, ordino un mezza Leffe e leggo, scrivo, metto a posto appunti della giornata. Banale, no? Certamente, ma anche impercettibilmente tranquillo. Il tempo vola, la stanchezza della giornata per un po' si scosta anche lei, si arrende alla birra che mi assopisce sì, ma gentilmente.

domenica 25 aprile 2010

Argilla?

Oggi me ne stavo beatamente seduto al Luxembourg, a godermi il sole parigino, insolitamente caldo, come un ramarro infreddolito. Ero con Carlo, e come sempre si discuteva dei massimi sistemi e di altri temi di altissimo spessore. Potrebbero prenderci per due intellettuali postesistenzialisti, dicevo tra me. Ma non tutti ci vedevano in quel modo...
Infatti, si avvicina una graziosa donzella, bionda, vistosi occhiali da sole. Il dialogo suona più o meno così:
donzella: Buongiorno, posso disturbarvi un istante?
Marco: Certo.
d: Voi due siete... ehm... ?
M: ...?
d: ...
M: ...
d: siete... amici?
M: ...si, siamo amici...
d: ok, se non vi dispiace, vorrei farvi qualche domanda, un breve sondaggio, sull'argilla e sui prodotti di bellezza e di cura del corpo a base di argilla.
E via al breve sondaggio sull'argilla, del tutto inoffensivo, lui. Però, voglio dire, c'è da riflettere sul fatto che la gentil donzella abbia scelto me e Carlo, scambiandoci per una coppia gay.

mercoledì 14 aprile 2010

Baggio e un violino

Brescia non è una città turistica. Questo fa sì che Brescia non sia una città conosciuta all'estero. Chi l'Italia non la conosce bene, o non vi ha mai messo piede, non conosce Brescia. Niente Beretta, acciai e industrie varie. C'è una sola ragione per cui qualcuno conosce Brescia fuori dai confini, magari anche al di là dell'oceano, ragione con un numero dieci e un codino: Roberto Baggio. Brescia è la squadra di Baggio, e chi segue il calcio italiano lo sa. Per il resto, vuoto.
E quale non è allora il mio stupore nell'incontrare, sabato sera, un conoscitore della città per altro motivo. Mi sono infatti imbattuto in un appassionato di violini, direi anzi un geek del violino, che ti potrebbe intrattenere con le storie di archetti e corde per ore e ore. E ho scoperto che Brescia è stata la grande rivale di Cremona nella fabbricazione di violini. Ah sì? Sì, non solo Stradivari dunque, ma anche Gaspare da Salò e altri liutai di cui già dimentico il nome. E lì l'esperto si lancia in un elogio del suo strumento, realizzato da un tale Fasser da Brescia appositamente per lui, e che suona meravigliosamente, evviva evviva. Splendori e fasti della Brescia a corde.

venerdì 2 aprile 2010

Acquari

Ieri ero in metrò. Come sempre, del resto. Ad un tratto, nelle curve tra Pont Neuf e Palays Royal, tutto si ferma, il convoglio si immobilizza, silenzioso, le luci si spengono e restano solo quelle di emergenza. Tutto diventa quasi più calmo. Accanto, anche il treno in direzione opposta è fermo, posso osservare i viaggiatori nel vagone. Improvvisamente, mi sembra di trovarmi in un acquario: voglio dire, non sono claustrofobico, non ho ansia né paura; solo, guardando attraverso i vetri, vedo le persone gesticolare, le bocche muoversi, ma i suoni non arrivano. E' come se potessi sbirciare la vita nascosta dell'altro metrò. E loro la nostra. Siamo pesci in due acquari per caso vicini. Siamo due bambini i cui passeggini si trovano di fronte, gli sguardi si incrociano, e forse anche i pensieri, ma non possono parlarsi; e poi un passeggino è spinto di qua, e l'altro di là. E infatti l'elettricità ritorna, il metrò riparte, e via.

domenica 28 marzo 2010

Non sparate sul pianista

Il jazz nasce a New Orleans e il bruch è forse un'invenzione inglese, ma Parigi prende tutto e molto altro, e lo mette insieme a modo suo, ed è così che mi trovo nella Halle aux Oliviers della Bellevilloise ad abbuffarmi di crêpes e marmellata, croissants e bacon, yogourt e uova e caffè, in ordine casuale, in miscuglio ordinato, mentre sotto di me, in un viavai di camerieri e avventori, tazzine e piatti, un piano accompagna la voce, i suoni, le onomatopee e i sussurri di un'ottima voce, per un ritmo che è sfondo eppure centro dell'intera sala, e anche se di veramente parigino c'è poco (forse solo il burro, che non manca mai), per un attimo chiudo gli occhi e sono in una sala da ballo della belle époque, quando le gonne svolazzanti delle ballerine erano il leit motiv dell'intera serata.

martedì 16 marzo 2010

Conferenze

E' stata una strana sensazione, esporre il poster dei risultati fin qui ottenuti alla conferenza cui ho partecipato la settimana scorsa. Strana, e bella. Sei lì, smanacci un po' per tenere piatto l'A-zero, che piccolo non è e ha voglia di arrotolarsi tutto. Al limite, sei quasi disposto a sdraiartici sopra, in un casto amplesso stirante. Finalmente ne vieni a capo, trovi le puntine, lo immobilizzi nella posizione e voluta; e ti volti. C'è già qualcuno che spia: bene.
A questo punto, non sai più che fare, guardi, aspetti, esiti; ti senti come un venditore di crêpes che addocchia due turisti, che a loro volta addocchiano le crêpes. Dici qualcosa? Richiami l'attenzione? O lasci fare e aspetti che ordinino? Loro osservano il poster, e tu osservi loro, aspettando forse un segno, una domanda, un cenno. Tossicchi, al limite. Finalmente qualcuno ti guarda, guarda il poster, ti riguarda: ha capito. Sei tu Marco Rivetti? Beh, sì, sono io, credo che l'accento mi tradisca un po', no? Mi puoi spiegare questo? Eccomenò? E allora ti lanci, infine, in una lunghissima spiegazione.
Ma ha ragione P.T., dovremmo farci delle magliette con il nostro poster stampato, così tutti saprebbero chi sei, e a chi fare le domande...

sabato 6 marzo 2010

Personaggi d'estate

Visto che in queste settimane non succede nulla di incredibile, e visto che la primavera non vuole saperne di far capolino e mi fa rimpiangere i dì dell'estate che fu, mi tornano alla mente due personaggi, due comparse del viaggio nel sud ovest francese. Personaggi semplici e genuini, specchio del luogo in cui viaggiavamo, quasi irreali, tanto che per un attimo viene voglia di afferrare un oggetto fino a farsi male, per chiedersi ma sarò davvero qui?
Il primo, è il venditore di couscous alle porte della Camargue. E' domenica, e lasciata Marsiglia sembra che la vita sia scomparsa. Ci sono le case, certo, le strade e tutto il resto, ma non ci sono le persone. Attraversiamo paesi fantasma, con il sole allo zenith, come nel vecchio west. E trovare anche solo un bar dove mangiare, appare impossibile. Ci fermiamo in un paese sulle sponde di un lago che non credevo esistesse (siamo a due passi dal mare), e forse non esiste davvero. C'è pure un porticciolo, ma tutto è fantasma. Finalmente, tra le vie di negozi chiusi, un cartello: domenica couscous, sette euro. Evviva. Ma il ristorante sembra non esserci. Eppure, basta guardare bene: il ristorante è una vetrina, e dietro una cucina dei primi del secolo, un lavello, qualche tavolo, due seggiole, pentoloni sui fornelli. Il vecchio proprietario, un uomo alto e magrissimo, dai lineamenti maghrebini, ci accoglie affettuosamente. Ovviamente siamo gli unici clienti. Couscous? Couscous. Mette a riscaldare la pentola, e in un attimo ci serve cibo in abbondanza, ricco di carne e verdura. Quasi esplodo. Ma lui vorrebbe che mangiassimo ancora, e pensa che rifiutiamo per cortesia. Sara gli chiede di poterlo fotografare, e lui posa orgoglioso davanti alle pentole. Se non fosse per quello scatto, penserei che non è mai esistito nemmeno lui.
Sulla strada del ritorno, Sara mi convince che vuol comprare dal foie gras da un venditore sulla strada: siamo vicini a Tolosa, questa è la regione del foie gras. Abbandono la strada e seguo i cartelli, arrivando alla cascina. Il proprietario ci fa strada, festoso. E' l'opposto del maghrebino: basso, tracagnotto, rubicondo. Si vede che mangiare anatre riempie. Lui e la moglie, una donna portoghese finita non si sa come in questo lembo di campagna, ci raccontano vita morte e miracoli dell'anatra, della sua anatomia, dei suoi sapori. Per loro, Sara è ma femme. Ovviamente comperiamo tutti e due qualche scatoletta. E siccome da queste parti non passano molti acquirenti, a lui non par vero di poterci raccontare la sua storia. E allora scopriamo che è un ex soldato dell'ONU, rimasto ferito non ricordo dove, e ad un certo punto della sua vita s'è detto che non valeva la pena di rischiare la vita, e che allevare anatre in guascogna era probabilmente più tranquillo. Come dargli torto. Non ci lascia più, ma è divertente ascoltare i suoi racconti, le sue riflessioni sul mondo e sui giovani. Fino a quando la moglie non si affaccia, e lo sgrida perché non ci fa più partire.

giovedì 18 febbraio 2010

Francia, Polonia, Italia

Avere il water che non funziona è una seccatura, alla quale si può rimediare col vecchio metodo del secchio. Avere il water elettrico (qui tutto è elettrico, anche i biscotti) che non funziona, è una enorme seccatura, alla quale non v'è rimedio alcuno. Ce ne sarebbe uno, se solo la mia chiave del bagnetto sul pianerottolo funzionasse, ma così non è.
Però, questo inconveniente m'ha permesso di conoscere i proprietari di casa mia. Adorabili. Sulla settantina, immaginateveli, lui è paffuto, col baffo bianco, francese; anche lei grassottella, sorridente, parla con un fortissimo accento polacco, più che accento direi che per ogni parola francese ce ne sono un paio sconosciute, e si scusa di non togliersi il cappello ma è mal pettinata. Si presentano entrambi a casa, stamattina, e d'acchito mi chiedo come contino di riparare il water. E già mi sbaglio, perché lui sa benissimo dove mettere le mani. Intanto, lei apre la porta del bagno sul pianerottolo e con mio grande stupore, dietro non c'è un bagno ma solo mensole. Ma dov'è il water, chiedo, e lei ride, mi dice ma non è mica qui! Mi mostra un'altra porta. Ah. Ma allora vuoi vedere che la chiave che ho... ovviamente sì, funziona, bastava sapere qual era la porta, e avrei evitato di diventare cliente fisso dei bar del quartiere...
Intanto lui ripara lei pulisce, e io mi sento inutile. E mentre uno fa una cosa, io chiacchiero con l'altro, lei mi racconta che il marito è malato di cuore ma che tutto va meglio da che prende il potassio, e lui mi parla dei suoi figli, del fatto che ora è nonno. E poi mi dice che parlo bene in francese, non come sua moglie che è qui da quarant'anni e non l'ha ancora imparato, e la prende in giro, mi racconta di quando sono stati a Roma e lei non si schiodava più da San Pietro perché voleva vedere il papa, che ci vuol fare è polacca. Lei risponde dicendo che è una donna di campagna, mica una parigina come lui; e mi racconta di quando vivevano tutti e due nell'appartamento e di fronte - erano gli anni settanta - la stamperia era ancora aperta, un rumore continuo di macchinari, giorno e notte, ed era pieno di bar frequentati dagli operai del giornale, e si trovava lavoro con facilità, anche io che non parlavo francese guardavo gli annunci e ne avevo già trovato uno, non come ora. Finita la riparazione, finita la visita, ormai capisco tutto quello che lei mi dice.

lunedì 8 febbraio 2010

La caccia all'università

Una storia di quasi tre anni fa, che mi è saltata alla mente ieri notte, senza motivo, in uno di quei momenti in cui speri che il continuo rigirarti tra le coperte possa ipnotizzarti e farti così cadere tra le braccia di Morfeo.
Dicevo. Era giugno 2007. Cercavo di iscrivermi in un'università francese. Ho già la mia prima scelta, ma per scrupolo mando il curriculum pure ad una seconda università, perché non si sa mai. Due giorni dopo, la segretaria mi chiama: non perdono tempo, questi. Il dialogo suona pressapoco così: "Abbiamo letto il suo curriculum, ci interessa, vorremmo conoscerla e che lei potesse discutere con il responsabile della formazione, venerdi le va bene? a che ora preferisce?" "Possiamo fare verso le dieci?" "Le dieci?! No, troppo tardi, verso le nove?" "possiamo fare nove e mezza" "non credo" "allora alle nove" (e perché diavolo mi chiedi a che ora preferisco, allora?)
Venerdi, alle nove meno dieci scendo dal treno. Treno: perché la seconda scelta sta in tanta malora, mica si diventa seconda scelta senza un motivo. Trovo l'ingresso dell'università, e penso: no, c'è un errore. In effetti mi sembra di essere in una scuola media di periferia, o al massimo in un oratorio costruito negli anni settanta. Uno spiazzo di cemento, dove qualcuno gioca a calcio, e due edifici a due piani di cemento. Punto. Alla faccia del design. Cerco senza successo la segretria, non c'è nessun cartello. Un'anima pia mi ascolta e mi spiega dove andare: in effetti, dietro il primo edificio c'è una sorta di giardino, un po' in salita, che termina con una casupola in mattoni, stile campagna: la segretria. Sono molto perplesso. Entro, mi dicono di aspettare un attimo. Sono nell'ingresso della casupola, sembra il circolo delle bocce di abbiategrasso. Un tavolo rotondo, delle coppe di misera fattura esposte su scaffali cadenti, una seggiola nel camino (sì, c'è un camino). Al dio degli scherzi piace fare marachelle, ma sa anche darti anche una mano, e io quel giorno lì ho senza alcuna ragione in tasca la macchina fotografica, e allora ecco a voi l'ingresso della segreteria dell'università.
Seguì il colloquio col resposabile, che con molta obiettività mi suggerì di tralasciare la mia prima scelta, e di stare lì da loro, perché lui insegnava in entrambe le università e poteva assicurarmi che questa era ben migliore di quella. Manco fossi uno di quegli sportivi che si portano dietro uno sponsor che paga. Mah.
A volte mi chiedo come sarebbe la mia vita se avessi dovuto farmi tutti i giorni un'ora di treno per andare al circolo delle bocce...

martedì 2 febbraio 2010

L'arte di commentare

Se questo fosse un mondo giusto, ecco i commenti che mi aspetterei dai destinatari della mia missiva:

Giacomo: quando è che la smetti con queste cazzate e ti trovi un donna? (sic!)

Sara: Riviiiii ma è bello feeeeeees!

Claudia: certo! (chiaro, pratico, sintetico)

Giona: codio...

Alberto: Che perla! Andiamo all'Escale?

Luca: minchia povero rivi! appena ho finito di smontare il motore della vespa, lo leggo.

Cavazza: Rivetti non pensavo che lei avesse anche questo talento nascosto! (e qui io, sull'ennesimo doppio senso della Fra, arrossisco)

Davide: NonPerderòUnAttimoKeSonoGiàLiLeggoKeStoria (perché lui ha fatto comunicazione, e sa)

lunedì 1 febbraio 2010

Istanbul

Più di una mezzaluna, o di un mosaico, più di uno scorcio di moschea, Istanbul è per me un insieme di parole difficili e affascinanti, che mi sforzo di tenere a mente. Tamam vuol dire ok, e questo lo imparo subito; non che mi serva molto altro, in realtà, ma il cercare di memorizzare, di ripetere, è il modo più naturale che trovo per immedesimarmi nella città. E allora, Kabatas è il capolinea del tram da prendere per arrivare a casa, Taksim è la grande piazza fulcro della vita notturna del quartiere più moderno, e Besiktas il quartiere dove vive Suzie e la parola magica da pronunciare se mi perdo; ma questa è facile - sorrido tra me - è come la squadra di calcio.
Il pide è uno sfilatino caldo ripieno di patate o formaggio, che non mi par vero possa costare così poco, mentre un baklava è una pastasfoglia dolcissima ripiena di miele e pistacchio, che si incolla alle mani, si scioglie in bocca e ti lascia estremamente felice. Davanti a Santa Sofia, fanno alcuni tra i migliori kofte della città, polpette di carne speziata. Alcune parole mi sfuggono, me le faccio ripetere, mi sforzo. A volte confondo una via del centro con un pane al sesamo. Del resto, sono i luoghi e il cibo che mi colpiscono di più. E se Uskudar è difficile tanto da ricordare quanto da pronunciare, e fa inceppare la mia lingua, Uskudar è l'approdo sull'altra riva del Bosforo, è la meta del piccolo battello che tra un sobbalzo e una nuvola di gasolio, ci traghetta sopra questa strisica di mare grigio, ondulato, fino a un lembo di molo che non è più Europa, perché Uskudar è il capolinea dell'Asia. O l'inzio dell'oriente.
Istanbul, ancor più che Santa Sofia, Topkapi o la Moschea blu, Istanbul sono i gatti ad ogni angolo di strada, sono i cani randagi padroni di un loro terrirorio. Istanbul sono negozi aperti ad ogni ora, e Suzie che mi racconta di aver fatto la spesa tornando dalla discoteca. Istanbul è una valanga di gente sempre riversata nelle strade. Istanbul è un autobus ogni minuto, tanto che io stento a crederci, ed è anche un taxi, un esercito di taxi gialli, e pure un taxi collettivo, su cui si sale in tanti, troppi, che senza sapere come mi porta esattamente dove voglio, ad un prezzo ridicolo, seduti in coppia su un solo sedile, davanti. O ancora, i pescatori che giorno e notte si sporgono dal ponte di Galata. Istanbul sono dei locali agli ultimi piani degli edifici del centro, dove ti affacci e vedi la città, mentre il dj trasmette una versione spagnola di should I stay or should I go, e tu ti chiedi perché. Suzie cerca un cappotto col collo di pelo mentre io compro un etto di zafferano per poche monete; ovviamente, non sa di niente.
Nell'euforia della città, il mio non avere impegni mi fa camminare tranquillo sullo riva del Bosforo. Sto tornando a casa da solo, ma nella folla degli autobus non so quale scegliere, e preferisco andare a piedi: non è più di un quarto d'ora. Di fianco a me, c'è il palazzo degli ultimi sultani dell'impero, adagiato sulla riva, bianchissimo. Ma di questo palazzo, il nome non mi è mai rimasto in testa per tutta la vacanza.

mercoledì 27 gennaio 2010

Letargo

come del resto alla fine di un viaggio, c'è sempre un viaggio da ricominciare...
Penso di essermi un po' impantanato. Voglio dire, sto bene dove sto; però. Certo, non posso essere sempre in movimento, in questo inverno gelido si può anche concretizzare un po' di letargo e dirsi che, tutto sommato, non si ha voglia di partire, si sta dove si sta, e così sia; però. C'è un però che non torna, ed è per questo che mi sento impantanato. Perché sarò anche qui, fisso qui, ma quello che non mi torna è la mia mente che non ha più voglia di viaggiare, si è rannicchiata nel cranio e non sente più il bisogno di fuggire. Sembra non ci siano più viaggi da ricominciare, come se tutti gli orizzonti fossero qui, nulla più in là. La mia curiosità è in letargo.

mercoledì 20 gennaio 2010

Dall'altro lato della cattedra

Non è che ufficialmente io sia proprio prof. Ma vendiamola così, e lasciam perdere i dettagli. La prima volta che sono entrato in classe per fare lezione, avevo una paura folle. Inutile dire che sapevo l'esercizio a memoria. Cercavo di assumere un'aria seria e sicura, di uno che sa ciò che sta facendo, e prendevo il mio tempo contando cose a caso tipo gli alunni, il numero di banchi, il numero di copie stampate, i gessi della lavagna. E poi, finalmente, pluff: si parte. E lo stress passa tanto più ti rendi conto che, in fondo in fondo, manco ti stanno ad ascoltare.
E' strano passare dall'altro lato della cattedra. Ti senti importante, certo. All'improvviso dimentichi tutte quelle ore che hai passato a scrivere, annotare, a chiederti cosa diavolo stesse dicendo il prof, a fare il contdown, a desiderare solo la fine, a non ascoltare, a stufarti perché non ascoltare è persino più noioso che ascoltare. Tutto dimenticato, perché ora stai dall'altro lato, e sei tu che li inciti a seguire, che invochi il silenzio, che richiami qualcuno, che ti dici che il tempo non è abbastanza.
Finché oggi, signori studenti: esame. Oggi dirigo io, siamo al gioco finale. E tu ti siedi qui, e tu lì, e avete due ore. E anche questo è strano. Non sei più tu lì seduto, concentrato, ora guardi gli allunni e ti annoi, pensi che devi controllarli ma in fondo, è così importante? Che parlottino pure, se vogliono. Poi, però, il primo che lo fa davvero è fulminato dallo sguardo: non penserai di farmela davvero, con il trucchetto dell'alzo la testa per cercare l'ispirazione? del mi sposto a lato solo per stirarmi un pochino? Io me li ricordo, questi trucchi. Come se fosse ieri: era ieri. E anche se oggi non ho sgridato nessuno, per due ore ho fissato - annoiato, assonnato - gli studenti senza perderli di vista. Si nasce incendiari e si muore pompieri. O si passa dall'altro lato della cattedra.

Dettagli, sapori

Solo a Parigi, credo, può capitare di uscire di casa la mattina e vedere il furgoncino del Maître Escargotier parcheggiato davanti ad un ristorante, con tanto di fattorino che consegna il secchiello di lumache fresche fresche...

domenica 17 gennaio 2010

Perché?

Perché? Perché un nuovo blog, che bisogno c'era che tanto nessuno ti legge e tutto va avanti talmente in fretta e talmente uguale che la gente non ha tempo e nemmeno tu ce l'hai, o fingi di non averlo. Perché?
Ecco appunto, perché fingo di non avere tempo, quando non è così. E perché penso che tutto sia uguale, quando non è così. E allora, ma sì mettiamola pure in questo modo: è un proposito per il nuovo anno. Tutti saranno più contenti, annuiranno soddisfatti.
Non ho foto, non ho statue, né quadri, non fisso il mondo su di un video. Ma ho l'impressione che in questi ultimi tempi tutto stia sfuggendo, e che il mio rapporto con l'esterno si riduca sempre più. Come la noia di Moravia. E allora mi riprometto, mi costringo a fissare su questo blog, a intervalli regolari, un oggetto un immagine un pensiero un appunto un gesto un evento una persona. Che altrimenti sfuggirebbe via, facendomi pensare che tutto è sempre uguale.